XXV DOMENICA DEL T.O., COMMENTO AL VANGELO
Nel vangelo di questa domenica Gesù ci inviata ad essere furbi. In genere non abbiamo un’idea un granché buona della furbizia, la rimandiamo all’imbroglio, alla disonestà (come appunto Gesù definisce l’amministratore del vangelo), all’inganno nei confronti di qualcuno.
Ma la furbizia può anche avere un’accezione positiva: furbo è chi sa ciò che conta davvero nella vita, chi sa riconoscerlo e sceglierlo. Furbo è chi è capace di rinunciare ai beni materiali per assicurarsi un posto nelle dimore eterne, è chi mette Dio e la sua lode davanti agli affari, chi sa che l’amicizia del povero vale molto più di un paio di sandali, perché apre le porte del Cielo.
Quanta poca furbizia c’è in quell’atteggiamento del pio israelita di cui ci parla la prima lettura (Am 8, 4-7), che assolve tutte le funzioni rituali e i precetti sacri della sua religione, senza lasciarsi minimamente raggiungere da ciò di cui questi sono il tramite, cioè dalla relazione con il Signore, da un incontro che cambi davvero la vita. E, dobbiamo ammetterlo, molto spesso il nostro modo di essere cristiani assomiglia a questo… cosa speriamo di poter ricevere da una fede vissuta come residuo ultimo della nostra vita, del tutto disconnessa dalla nostra quotidianità, che invece prosegue nella direzione opposta, venerando mammona e talvolta sacrificandole la carità e la responsabilità alla quale la fraternità ci chiama? È un atteggiamento infantile, segno di una religiosità vissuta forse per paura di un castigo, più probabilmente per superficiale tradizione, dalla quale non si attende e non si spera nulla.
Il Signore invece ci invita ad approfittare dei beni che Lui stesso ci dà, siano essi materiali, intellettuali, carismatici… non per una inutile e superficiale vanagloria, ma per acquistare con esse ciò che davvero è importante avere: dei fratelli e delle sorelle che ci riconoscano come vero fratello, e che possano testimoniare per noi davanti al Padre che l’esame della carità lo abbiamo superato (cf. Mt 25, 31-46).
I beni che Lui stesso ci dà: siamo tutti infatti amministratori di una ricchezza che non è nostra, di tanti doni che non abbiamo meritato e che ci sono stati dati gratuitamente. A noi la responsabilità di farla fruttificare secondo la volontà del Padrone (“che siano una cosa sola” Gv 17, 21), e di non restituirla nascosta in un fazzoletto.
Quanta gioia e consolazione ci può dare questo caro amministratore disonesto, che ha sperperato in abbondanza, ma quando si trova con l’acqua alla gola cambia direzione, solleva i creditori dal peso del debito (forse toglie la parte sulla quale aveva fatto la cresta?), entra nella logica della gratuità. Il Padrone non lo biasima, ma lo loda: il Signore ci aspetta sempre, non smette di credere che possiamo diventare, anche all’ultimo, finalmente furbi. Come il Buon Ladrone.
Sr. Alice di Gesù






Comments are closed